di Lucio Leonardelli
Lucia Annibali, giovane avvocatessa di Pesaro oggetto di una terribile aggressione con l’acido nel 2013, è stata protagonista di un riuscito incontro sulle violenze di genere organizzato dal Lions Club Portogruaro, presieduto da Vincenzo Pellegrino, con il patrocino del Comune.
Nel corso dell’intervista pubblica, presenti gli studenti di alcuni istituti superiori della città, Lucia Annibali, oggi parlamentare molto impegnata nelle questioni femminili, ha affrontato il tema della violenza di genere nelle sue diverse sfaccettature.
Di seguito riportiamo uno stralcio della lunga intervista pubblica fatta da Daniela Boresi, direttore del quotidiano online Timer Magazine, in occasione del partecipato convegno.
Il tema di oggi è la violenza di genere. Violenze che si perpetrano in diversi modi. Uomini che picchiano le donne, le violentano, le umiliano o più semplicemente non permettono loro di realizzarsi. Così come sono diversi gli uomini che le perpetrano.
“Il dolore è dolore per tutti indipendentemente da dove arriva e la sofferenza deve essere riconosciuta uguale per tutti. Non sempre la violenza matura in un ambiente degradato, non vuol dire che lavoro svolge l’uomo, se è colto, o ricco. Le motivazioni chi spingono questi uomini a commettere questi atti vengono da molto prima, da una loro incapacità a relazionarsi. Per questo serve un approccio che sia trasversale e strutturato”.
Prima dell’aggressione era stata oggetto di stalking da parte dell’ex fidanzato. Era un campanello d’allarme si sarebbe potuto fare qualcosa prima?
“Quello che si poteva fare lo dovevo fare io. Avrei dovuto parlarne. Non l’ho fatto per i motivi per cui non lo facciamo. I motivi sono tanti. Inanzitutto dobbiamo pensare che questi fatti avvengono all’interno di relazioni e che c’è un investimento emotivo. La donna prova dei sentimenti, che poi li provi per qualcuno che non è degno non è una colpa. Già è difficile accettare questo. Vivere uno stalking è molto faticoso, ti limita molto nella tua quotidianità, genera paura e s’impara a gestirsi, a organizzarsi. È molto complicato, tutto è caratterizzato da una forte manipolazione e non riesci a capire quali sono i tuoi sentimenti. C’è un percorso di denigrazione. Si deve imparare ad individuare questi comportamenti e ribaltarli anche nella loro narrazione. Non è facile accettare tutto questo, non basta dire basta. E’ indispensabile a questo punto riuscire a dare punti di riferimento alle donne che chiedono aiuto. Ricordo una signora del Sud che ho ricevuto quando lavoravo al Dipartimento della ministra Boschi. Era una donna realizzata professionalmente che per 30 anni aveva avuto il marito che l’aveva mortificata e quando il marito è morto, il figlio si è sostituito nelle angherie. Mi ha chiesto aiuto, l’ho messa in contatto con una carabiniera con cui lavoravo e lei è diventata un suo riferimento. Avere un sostegno anche nelle forze dell’Ordine è importante”.
Anche la famiglia può giocare un ruolo importante. Per lei lo è stato?
“Dovrebbe essere una famiglia abbastanza sana per poter crescere individui sani. La mia famiglia è stata importante nella mia vicenda. Quando è accaduto il fatto ho provato un po’ di vergogna nei confronti della mia famiglia. Mi sono chiusa, poi ne ho parlato, ma non è sempre detto che si venga subito capiti. Ho un fratello splendido che mi ha aiutato a creare un certo equilibrio. Con la mia famiglia ho vissuto la fase dell’ospedale dall’emergenza iniziale ad oggi. Poi la fase del processo che è stata una fase molto difficile e che ci ha uniti molto. Loro hanno dato una mano a me e io l’ho data a loro”.
Nei casi di violenza ci si mette a confronto con molti sentimenti. Il perdono è uno di questi. Recentemente uno dei suoi aggressori le ha chiesto di perdonarlo, spedendole una lettera.
“Questa lettera è arrivata un mese e mezzo fa. L’ho aperta quando ero a casa dei miei genitori e l’ho lasciata li. Non mi ha suscitato particolari emozioni, credo di avere raggiunto una certa lucidità. Se questa persona effettivamente si rende conto di quello che ha fatto e si sente una persona cambiata, meglio per lui e meglio per la società, perché non è vero che il carcere non riabilita. Se poi è una richiesta solo strumentale, peggio per lui, ognuno deve fare conto con i propri gesti. Con queste riflessioni, riportate da un quotidiano, ho cercato di dare un messaggio di civiltà in questo momento in cui la società si sta un po’ abbruttendo”.
Cosa non le piace di questa società?
“E’ una società che sta perdendo umanità, è molto superficiale. Non mi piace come viene rappresentata la donna, non mi piacciono i toni definitivi e drammatici con cui viene rappresentata nel momento del processo. Non vedo un modo di comunicare che aiuti le persone nella qualità della vita. Chi ha sofferto ha bisogno di fiducia e non di incattivirsi”.
Ritornando al perdono. Sono due le persone da perdonare, chi ha commesso l’atto e chi lo ha istigato.
“Non mi sono interrogata sul perdono, ho avuto molte altre cose da fare anche più interessanti. I sentimenti che si provano sono in evoluzione. Chiaramente con lui è un po’ più complesso. Io non credo che l’albanese possa tornare da me, a fine pena lui tornerà nel suo paese. Con questa persona invece la questione è più complessa, mi porrò il problema quando si porrà. È difficile portare avanti l’idea che una persona che ti ha fatto così tanto male abbia anche il diritto ad un’altra vita, ma si deve cercare di guardare oltre”.
La rete di supporto. È una rete che tiene o è una rete che ha ancora grossi buchi.
“Manca la continuità, si mettono in campo politiche anche efficaci e condivise, ma che hanno bisogno di continuità. Ci si deve impegnare affinché quello che viene messo in atto non resti sulla carta. Servono politiche a livello di amministrazione alta che si possano tradurre poi in pratiche sul territorio. Nella scorsa legislatura abbiamo costruito le linee guida per i Pronto Soccorsi degli ospedali che sono in Gazzetta da oltre un anno. Bisogna adottare gli strumenti che ci sono, si deve potenziare il monitoraggio per evitare il prolificare di norme. È importante dare continuità di finanziamenti ai centri antiviolenza, ad esempio”.
La scuola è un momento formativo culturale, ma è anche un momento dove si formano i sentimenti. Come si potrebbe intervenire all’interno della scuola.
“Sono stata in molte scuole, le esperienze sono state diverse da scuola a scuola. Devo dire che i confronti nelle scuole servono anche a permettere che i ragazzi che stanno vivendo qualcosa di difficile o in famiglia o a livello personale, possano aprirsi. Lo fanno in modo diverso, con e-mail o biglietti, e sarebbe importante che gli insegnanti riconoscessero questo loro disagio. Ricordo che un giorno ero in metro, c’erano una ragazzina e un ragazzino. Doveva essere uno scambio di effusioni. Lei era spiaccicata contro il vetro, lui la baciava e le tirava una ciocca di capelli, quasi la braccava. Ad un primo momento poteva sembrare un momento affettuoso, ma a me non sembrava uno scambio equo. Magari si deve ragionare sui gesti, sui comportamenti e sulle parole, la gestualità ci dice molto del rapporto. Si devono aiutare i ragazzi a capire”.
Oggi per i giovani è molto importante il concetto di bellezza, sembra quasi che non riescano più a sopportare tutto ciò che viene considerato imperfezione.
“È normale che uno si senta infastidito da un brufolo, o da qualcosa che non gli piace, ci sta. Se poi corrisponde ad un disagio però è diverso. A me è cambiato il prospetto, non avevo un viso e me lo sono ricostruita. La bellezza è l’insieme della persona. La donna bella anche se è intelligente, se ha un proprio stile, la bellezza è vissuto, storia, è anche una fatica, un modo di stare con le persone, avere sentimenti che sono belli. Si è brutti se si hanno pensieri brutti”.
Cosa farà Lucia domani?
“Domani non so. C’è un oggi e c’è un presente. Ho il lavoro in commissione con questo provvedimento detto “Codice Rosso” che viene spacciato come la medicina che risolverà tutti i mali, ma non lo è. Voglio continuare a portare avanti questo impegno con serietà e responsabilità”.
Raccontarsi fa parte di un percorso?
“Si, ma preferisco lavorare. Quello che è accaduto a me può essere uno spunto di riflessione, ma è giusto che resti qualcosa di privato e di intimo. Non possiamo sempre parlare solo di sé stessi, sono un tecnico che vuole dare un apporto molto più ampio”.